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Gli equiparati della discordia

Gli equiparati della discordia

Il governatore del rugby mondiale, Bernard Lapasset, ha infilato il messaggio in una bottiglia che sta facendo il giro del mondo: “Il professionismo ha permesso una utilizzazione larga e a volte eccessiva del principio dell’eleggibilità. Ma non ci sono garanzie. Dove dobbiamo fermarci? Cosa diventa l’identità di una squadra nazionale o quella di una maglia?” ha dichiarato a Midi Olympique, estratto poi ripreso da Onrugby.it. Essendo, lui, francese è stato forse sensibilizzato dall’attuale utilizzo, da parte dei Bleus, di Rory Kockott e Uini Atonio, per citarne due; ma in giro vi sono anche i Kelly Haimona, i Samuela Vunisa, i Manoa Vosawai, i Jared Payne e compagnia bella (e potremmo tornare pure a Diego Dominguez). Cosa recita la regola 8.1 del World Rugby riguardo all’eleggibilità di un giocatore per una nazionale? “a) deve essere nato in quella nazione – b) avere almeno un genitore o un nonno nato in quella nazione – c) aver completato trentasei mesi consecutivi di residenza in quella nazione”. Il punto c) è … il punto: una variante non da poco rispetto agli altri due. Fermo restando che se si è stati selezionati con una squadra nazionale seniores per un match internazionale l’eleggibilità per un’altra nazionale non sussiste. Lapasset ha buttato lì l’idea per una norma maggiormente restrittiva. “Il lavoro e l’ambiente di vita sono una cosa, la nazionalità un’altra. Dovremo essere più fermi. Il Comitato Olimpico Internazionale è molto esigente in materia di nazionalità, passaporti e identità. Il rugby, a mio parere, deve ispirarsi alla legislazione olimpica”.
Il presidente del World Rugby non fa che tornare su un argomento chiacchierato da lunga data, in Italia specialmente ma non solo. Ricordo di una polemica aspra in Galles, poco prima degli ultimi mondiali, circa un’eventuale convocazione, anche se solo nella lista allargata, dell’allora già 32enne Paul Tito, seconda linea neozelandese da parecchi anni in Galles, con i Dragoni. Molti tifosi, ma anche Alun Wyn Jones, si scagliarono contro il fatto che un non gallese, per di più over 30, potesse rappresentare quella nazione ovale (fatto, poi, non accaduto). La partita si gioca tra la forte identità nazionale e la globalizzazione. Abbiamo provato a fare un mini sondaggio d’opinione sulla questione sollevata da Lapasset e, inevitabilmente, dal discorso generale quasi tutti gli intervistati scendono nel particolare italiano.

Giancarlo Dondi (Presidente Onorario Fir, membro del World Rugby): «Sono d’accordo con questa idea. Bisogna lavorare sulla formazione nei singoli paesi. In ogni caso gli stranieri che vengono in Italia non sono di grande qualità o comunque inferiori all’epoca di Diego Dominguez. Non so se ne abbiamo veramente bisogno. Per contro vorrei che venisse considerato italiano un giocatore che arriva prima del compimento dei 18 anni, quando non è ancora professionista: vorrebbe dire che la formazione la farebbe da noi e può essere considerato più italiano di altri».
Roland de Marigny (Head coach Accademia Nazionale, coach Zebre, 19 caps da equiparato con l’Italia): «E’ una questione delicata; dipende da ciò che vuol fare il movimento e che identità si vuole. Se ci sono giocatori, nel nostro caso italiani, forti non c’è motivo che il tecnico vada a cercarne di equiparati: se si deve vincere, per tutta una serie di motivi, è difficile dire no; per questo, credo, lo stanno facendo anche nazioni “insospettabili” come Inghilterra e Francia. C’è anche un discorso a seconda dell’età: se un ragazzo di 18 anni vuole andare all’estero, per qualsiasi motivo, è ancora in corso di formazione e l’affinerà in quel nuovo Paese; diverso se arriva che ha 26 anni. Puoi innalzare il periodo di eleggibilità a cinque anni: uno di 18 o 20 anni potrà dimostrare di voler veramente vestire quella maglia, se ha le qualità, e potrà dare per molto tempo. Altrimenti, se l’immagine che vuoi dare è quella di nazionalità e vera identità si regoli tramite passaporto e sangue, massimo fino al bisnonno, e punto; dopodiché cambieranno anche le decisioni del movimento».
Filippo Frati (Head coach Rugby Rovigo Delta): «L’eleggibilità è un qualcosa che sta al passo col mondo in evoluzione, globalizzato, ove è più facile muoversi, cambiare vita. Negli ultimi anni le nazioni ovali europee si sono evolute sotto questo punto di vista: nelle Accademie vi sono più adolescenti stranieri rispetto a un tempo. Un conto se un quindicenne va in un Paese straniero, per qualsiasi motivo, e cresce rugbysticamente là. Forse andrebbe alzato il periodo di eleggibilità: da tre a cinque anni. In questo caso diventa predominante la scelta del giocatore e mi viene in mente l’esempio di Bundee Aki che a 22/23 anni si è preso su dalla Nuova Zelanda per andare al Connacht poiché spera di potersi guadagnare una convocazione con l’Irlanda visto che con gli All Blacks, sostiene lui, non verrà mai convocato. Se un giocatore fa una scelta, è rispettabilissima; magari gliela farei sudare un po’ di più, in modo che dimostri veramente il valore della sua scelta».
Luca Bot (Direttore tecnico Rugby Parma, ex coach Accademia Nazionale): «E’ una questione complicata, ci sono nazioni forti e altre no. In linea di principio l’intervento sarebbe quello di elevare i numeri del materiale umano a disposizione e lavorare per far crescere la qualità, lavorando sin da ragazzi sui particolari, indipendentemente da regole di eleggibilità. Certo, vi sono squadre di club che di giocatori della propria nazione ne hanno ben pochi; è anche vero che l’identità con una maglia è un qualcosa di particolare che uno, anche straniero, la acquisisce col passare del tempo ma è altrettanto vero che la nazionale è una cosa un po’ diversa».
Michele Mordacci (Head coach Rugby Colorno): «Io sarei per portare l’equiparazione a cinque anni. In ogni caso, un equiparato, guardando a casa nostra, dovrebbe fare la differenza rispetto ai nostri altrimenti meglio mettere un italiano comunque. Da noi, fondamentalmente, manca un po’ lo sviluppo del settore giovanile e a mio avviso tutte queste Accademie non sono la panacea. Lapasset guarda alle norme ancor più ferree del Cio? Se così deve essere, che sia. Certo che per noi, in quel caso, occorrerebbe implementare non poco il lavoro nel settore giovanile».

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